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Intervista: Sergio Vega (Quicksand)

(c) Annette Rodriguez

Visti i vari impegni dei tre musicisti dei Quicksand, L’arrivo di un loro nuovo album (l’ottimo “Distant Populations”, ndr) è l’occasione da non perdere per intervistare la band di New York. A scambiare qualche mail con noi c’è il bassista Sergio Vega (Dan & Cic)


L’uscita di “Distant Populations”, a quattro anni dal precedente “Interiors” è stata quasi una sorpresa. Avete forse voluto evitare indiscrezioni per poter lavorare senza stress?
Sebbene viviamo in un’epoca in cui gli artisti condividono tutto ciò che riguarda il loro processo creativo, non lo abbiamo invece ritenuto necessario o vantaggioso per noi. Abbiamo così potuto lavorare al nostro ritmo, liberi da ogni aspettativa.

Siete tutti coinvolti in altri progetti che vi tengono parecchio impegnati e ci avete comunque abituati ad aspettare parecchio tempo tra un disco e l’altro. Com’è stato tornare a lavorare a un disco dei Quicksand?
Abbiamo il vantaggio di vivere nella stessa città, quindi non è davvero un tipo di dinamica “on/off”. Possiamo stare tutti insieme e lavorare abbastanza spesso, anche se abbiamo altre cose da fare. E se uno di noi è impegnato, gli altri due possono comunque portare avanti le cose.


Cosa differenzia la scrittura di un album dei Quicksand dagli altri vostri progetti?
Abbiamo passato così tanto tempo a sviluppare insieme stili personali quando eravamo più giovani che si è creato un legame che possiamo davvero sentire nei ritmi e nelle dinamiche del materiale dei Quicksand.


È stata la prima volta che lavoravate a un disco in tre, senza la collaborazione del chitarrista Tom Capone, col quale vi siete separati nel 2017…
In realtà questo è il secondo disco che abbiamo fatto senza Tom. Non aveva infatti preso parte alla lavorazione di “Interiors”, ma abbiamo incluso il suo nome nel disco perché stavamo ancora cercando di tenerlo nella band. Alla fine, quindi, abbiamo scritto e registrato anche il precedente disco come trio.

Nel 1995 avevate invece annunciato la vostra separazione e poi 22 anni dopo, nel 2017, siete tornati con un nuovo album (il già citato “Interiors”, ndr). Cosa aveva portato alla rottura e alla successiva reunion?
La separazione è stata principalmente dovuta alla stanchezza di lavorare così tanto, ma avremmo potuto davvero prenderci solo una pausa fino a quando non ci fossimo ripresi. Siamo tornati insieme perché ci siamo resi conto che non c’era una buona ragione per essere separati.


La pandemia e il susseguente lockdown hanno forse accelerato il ritorno dei Quicksand e la realizzazione di un nuovo disco?

No, il disco era praticamente finito prima del lockdown. In realtà abbiamo terminato le tracce poco prima che si verificasse la chiusura totale negli Stati Uniti. Questo ci ha tuttavia dato molto più tempo per discutere di altre cose.


Come avete vissuto questo lockdown? 
Con tante telefonate e riunioni su Zoom! Ho anche trovato il tempo per allenarmi quotidianamente a casa. 


Il titolo del disco, “Distant Populations” (che ritroviamo nel brano “Inversion”) ha una forte connotazione sociale. Quanto è importante per una band come i Quicksand avere una coscienza sociale?

Pensiamo che in generale sia importante essere consapevoli e preoccuparsi delle questioni sociali e di come si relazionano a noi come individui e con la società in generale. Queste sono le cose che consciamente o inconsciamente influenzano le nostre vite e come ci comportiamo gli uni con gli altri.

Parliamo dell’artwork della copertina del disco…
È stata realizzata da Tetsunori Tawaraya, lui è davvero incredibile! Abbiamo amici in comune e Walter (Schreifels, chitarrista e cantante della band, ndr) e lui si conoscevano. Mentre stavamo lavorando al disco, Annette Rodríguez, una cara amica della band, nonché mia moglie, ha realizzato per noi una bella copertina per l’album con un “mecha Monster”creato da un artista giapponese scomparso. Ci ha ispirati durante la scrittura, fino a condurci all’idea di coinvolgere Tetsunori.


Cosa ricordate della scena hardcore newyorchese degli anni 90 e cosa ne è rimasto oggi?
Principalmente eccitazione e il sentirsi parte di qualcosa di nostro e che abbiamo costruito. Ci ha dato così tanto fino ad oggi. Ha i suoi sottogruppi con valori e preoccupazioni diversi come ogni ecosistema. Come cultura ed etica, la scena Hardcore è ancora una forza importante a livello globale. È fantastico vedere la sua crescita e il modo in cui le persone se ne appropriano. 


Cosa vi hanno regalato le varie esperienze in altre band, alcune delle quali molto importanti? 
Stima e riconoscenza.

Hits: 90

Pogo Zine

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